SOMMARIO Non solo del borgo antico, ma anche dell’archeologia indusriale è rimasta solo qualche briciola. Rogoredo, con le sue grandi fabbriche, era già una città satellite quando ancora faceva parte del Comune rurale di Chiaravalle, ben prima dell’aggregazione a Milano. Il problema è che la gloriosa industria ivi presente, come l’acciaieria Redaelli, è scomparsa da anni, mentre il borgo, risalente al X secolo, tenta di resistere ancora, sebbene scoraggiato da una furiosa espansione edilizia che non risparmia nemmeno le prime testimoniante della rivoluzione modena
di Riccardo Tammaro
Il borgo di Rogoredo si trova lungo la via Emilia, ed è attraversato dalla ferrovia Milano-Bologna e Milano-Genova alla fermata omonima: la stazione si trova ad ovest dello scalo ferroviario, mentre il paese si trova ad est; non distante passa anche la Tangenziale Est, che ha una sua uscita che separa il borgo dalla frazione di San Martino, attualmente sul confine tra Milano e il Comune di San Donato ma storicamente afferente a Rogoredo.
Il borgo invisibile
Queste poche righe fanno capire quanto poco sia rimasto del tessuto rurale di Rogoredo, sconquassato da infrastrutture di interesse nazionale, che però ne hanno quasi totalmente disperso il valore agricolo. Non per questo il borgo si è dato per sconfitto. Nel XX secolo vi ha avuto svolgimento la bellissima storia della Redaelli, un’azienda che aveva anche costruito le case per gli operai e le ville per i dirigenti, e che aveva avviato al calcio numerosi giovani figli dei dipendenti: la squadra della “Redaelli Rogoredo” negli anni ’40 militò anche in serie C con buoni risultati. Proprio a motivo di questa bella vicenda, dopo aver raccontato la storia rurale di Rogoredo, dirò due parole anche su questa storia più recente.
Nel medioevo, in quest’area, si trovava una distesa verde di prato e “marcite”, un fitto reticolato d’alti argini alberato lungo fossati irrigui, vanto dei monaci Cistercensi, che avevano risanato la preesistente palude rendendo il paesaggio ostile del X secolo un sereno paesaggio della Bassa Milanese. Il verde intenso era solo punteggiato dal bianco delle “bergamine” (le mandrie di mucche) e dal rosso mattone delle grandi cascine lombarde.
Chi, uscito da Milano dalla Porta Romana, percorreva la strada consolare Emilia per qualche chilometro fuori dalle mura cittadine costruite dagli spagnoli (i bastioni), si trovava sulla sinistra un piccolo paesino, Rogoredo, separato dal borgo di Chiaravalle proprio dalla via Emilia. La vita scorreva uguale e tranquilla nelle grandi cascine dalla tipica struttura lombarda con cortili, porticati, aie, alloggi coi loro ballatoi in legno, granai, fienili e le immancabili “bergamine” (spazi destinati alle mandrie, per estensione del termine sopra citato).
Legata all’Abbazia di Chiaravalle, Rogoredo fu una frazione di quel Comune fino al 1923 e le sue terre appartenevano in parte ai Cistercensi e in parte ai Morsenchio, devoti vassalli dei Visconti. Del vecchio borgo rurale sono arrivate a noi alcune testimonianze architettoniche, e vale la pena di ricordarle, così come si presentavano arrivando dal centro cittadino.
Superato l’odierno piazzale Corvetto (allora Ponte di Nosedo, dal nome del borgo situato poco distante, vedi capitolo proprio), ci si dirige, tenendo sulla destra il Cavo Redefossi, verso il borgo di Rogoredo, il cui nome deriva dall’omonima cascina, e che fa chiaramente riferimento ad un bosco di querce, Roburetum, in milanese Rogoree. Alcune fonti narrano essere avvenuta la demolizione, altre, più attendibili, dicono coincidere con la cascina Palma, al numero 16 di via Orwell, di cui restano solo pochi ruderi al di là della ferrovia, dopo la demolizione quasi totale dovuta al suo divenire pericolante (come vedremo).
Appena giunti nell’abitato, sulla destra della strada si trova un monumento nazionale: si tratta dell’ex stazione di posta, sita al civico 76 di via Cassinis, ed attualmente ospitante un locale pubblico, ove nel tardo Ottocento poteva sostare e ristorarsi, nonchè cambiare i cavalli, chi viaggiava in diligenza. Al di là della ferrovia, attraversata con un passaggio a livello fino alla costruzione, avvenuta durante il ventennio fascista, del cavalcavia Pontinia, si potevano ammirare, fino alla fine del XIX secolo, tre cascine: la già citata Palma, quella del Carmine (oggi scomparsa) e la cascina San Martino tuttora visibile all’inizio del territorio di San Donato, in frazione per l’appunto denominata San Martino. Isolate, erano circondate come detto da prati e filari di gelsi.
Cascina Palma, fine di tre secoli di storia
La cascina Palma, già presente nelle mappe del catasto di Maria Teresa del 1722, situata a sud-ovest della strada che da Porta Romana proseguiva verso Lodi, prima come detto denominata Cassina Rogoredo, era formata da un unico fabbricato quadrangolare con una corte chiusa. Successivamente venne ampliata con un altro fabbricato con corte interna, e tale conformazione è rimasta così dalla fine del 1800, salvo la costruzione successiva di due piccoli edifici per il ricovero degli animali.
La Cascina, abitata da contadini ed utilizzata ad uso agricolo fino ai primi anni 2000, fu nel 2009 oggetto di un progetto di intervento complessivo finalizzato al recupero dell’immobile per insediarvi servizi legati alla mobilità, che ristabilisse l’impianto planimetrico originario e salvaguardasse l’aspetto morfologico della cascina storica, valorizzando le due corti interne, poste in sequenza; e questo mediante ristrutturazione, restauro, conservazione e nuova edificazione di alcuni manufatti, e interventi di demolizione di piccole parti degradate. Inoltre era previsto che le architetture delle facciate, i serramenti, le ringhiere, le coperture dovessero riprendere le caratteristiche dell’edilizia tradizionale rurale della cascina lombarda: in particolare era previsto l’utilizzo dei mattoni, del cotto e dell’intonaco con gradazione fra i colori giallo e grigio senza aggiunta di pigmenti o coloranti. Purtroppo, del progetto non se ne fece nulla e, a poco a poco, la cascina iniziò a perdere i pezzi per mancanza di manutenzione da parte della proprietà, fino a giungere nel 2022 alla demolizione pressoché totale.
La Cascina San Martino invece sorge alla fine della via Rogoredo, proprio al confine con San Donato Milanese, e dà il nome alla frazione omonima. Nascosta dalla vegetazione, difficilmente notabile per questo motivo, è sita in via Rogoredo quasi di fronte alla via Marignano, ove si apre il suo cortile. Qui, nei campi che le stanno dietro, si coltivano erbe aromatiche, quelle che si usano per insaporire cibi e sughi, o per aromatizzare il pesce e la carne (dragoncello, ruta, salvia, rosmarino, menta, finocchietto selvatico, nepitella, erba cipollina, coriandolo, aneto, timo), che crescono su una superficie di trentamila metri quadri.
Voglio concludere l’elenco delle cascine con due altre realtà non distanti dal borgo di Rogoredo: la prima è la Cascina San Bernardo e la seconda è la Cascina San Francesco, di cui abbiamo già trattato nell’articolo dedicato a Chiaravalle borgo su questo stesso sito.
La Redaelli
Concludo citando la storia della Redaelli: alla fine del XIX secolo la rivoluzione industriale portò a costruire una ferriera proprio in questo borgo agricolo. I primi proprietari della ferriera furono i Riva, i quali però, in piena crisi finanziaria, la vendettero nel 1892 ai Redaelli, i quali la trasformarono in una importante acciaieria, e come detto costruirono anche case per gli operai, come la recentemente demolita “Cà del Rebuscin”, che occupava l’attuale civico 17 di via Rogoredo e le ville per i dirigenti (alcune sono rimaste ai civici successivi della stessa via), che si affacciavano su una gradevole roggia di chiara acqua gorgogliante; al di là della strada, fino a che non fu coperto, scorreva tra due rive verdi il Redefossi.
E costruirono anche le scuole, la materna Caproni a forma di aeroplano in omaggio alla vicina industria aeronautica, l’elementare di via Monte Popera e la media. Recentemente la ferriera è stata demolita e purtroppo con essa, inaspettatamente, anche alcune delle ville sono state rimpiazzate da altri edifici, ma qualcosa rimane. Altre fabbriche si insediarono poi a Rogoredo (ad esempio la ditta Baldovin e la ditta Tana).
La Sacra Famiglia, aspetti artistici della chiesa datata 1911
Infine, il 5 novembre 1911, fu aperta al pubblico la chiesa dedicata alla Sacra Famiglia, contribuendo così a dare al borgo il suo aspetto attuale. La chiesa fu progettata in stile romanico lombardo dall’architetto Oreste Benedetti e dall’ingegner Antonio Casati in pietra viva e mattoni. La sobria facciata, suddivisa in tre scomparti dalle lesene che la decorano, risulta slanciata grazie alle edicole che la sovrastano. Una trifora ed alcuni archetti ornamentali la alleggeriscono; la simmetria della facciata è ribadita dai tre portali, di cui quelli laterali riproducono in scala ridotta quello centrale; tutti e tre sono dotati di un piccolo pronao.
L’interno, diviso in tre navate, è a croce latina. Lo illuminano la trifora della facciata e una serie di bifore aperte lungo i muri laterali. Le colonne cilindriche di marmo si alternano ai pilastri a croce, conducendo all’altar maggiore, dietro il quale si può ammirare l’abside, decorata dalle tempere del pittore Albertella. Essa è affrescata con quattordici figure allegoriche, di cui tre centrali e le altre di contorno. Le figure centrali rappresentano le tre virtù teologali: Fede, Speranza e Carità; attorno ad esse si trovano altre figure, per una suddivisione finale dell’affresco in tre scene. La scena centrale vede protagonista la figura della Fede (bianca), la quale regge una croce ed un’eucaristia, simbolo della morte e resurrezione di Gesù rinnovata ogni giorno nella S. Messa. Essa è contornata da quattro figure, ognuna delle quali, con il suo atteggiamento, rappresenta un possibile approccio alla Fede.
Delle due figure poste nella parte alta della scala, quella di sinistra esprime l’abbandono nella fede, e rappresenta la Fiducia, mentre quella di destra esprime sorpresa di fronte alle verità della Fede e rappresenta lo Stupore. Le due figure nella parte bassa della scala esprimono invece due sentimenti contrastanti. Quella di destra, a capo chino, in un atteggiamento prudente, rappresenta il Dubbio, mentre quella di sinistra, a busto eretto, sicura, rappresenta la Ragione. Il quadro completo quindi si può leggere come i vari modi di accogliere la fede: con fiducia, con stupore, con il dubbio e con l’avallo della ragione.
Alla sinistra di questa si trova la scena incentrata sulla Speranza (verde), che regge un’ancora (simbolo di stabilità: ancora di salvezza), ed è contornata da tre figure. La figura in alto a sinistra ha le mani giunte e rappresenta la Preghiera, alimento della Speranza, mentre quella in basso a sinistra, che tiene in mano una candela, rappresenta il Tempo, il cui scorrere consuma la candela così come consuma la nostra vita. La figura di destra infine ha lo sguardo fissato sulla Speranza, e rappresenta l’Appagamento, cioè il fatto di non desiderare più nulla di terreno, ma di puntare solo al trascendente.
L’ultima scena rappresentata nel catino absidale ha per protagonista la Carità (rossa), che ha tra le braccia un fanciullo, simbolo dell’amore per i piccoli e gli ultimi, ed un pellicano, che un tempo era ritenuto simbolo dell’amore; è contornata da tre figure.
La figura centrale, inginocchiata, rappresenta la Petizione, perchè la carità è dono di Dio ed a lui va richiesta. La figura di sinistra sta leggendo un inno alla Carità e rappresenta la Gioia con cui si deve donare; la figura in alto a destra, infine, che sta donando un mazzo di fiori, rappresenta l’Azione di donare, che è il modo più diretto di esercitare la Carità.
Per concludere la panoramica, sono degni di nota la Via Crucis, elegante serie di altorilievi, il fonte battesimale, recentemente rinnovato, e le vetrate: quelle lungo i muri laterali rappresentano i sette Sacramenti, mentre quelle nell’abside riproducono un’allegoria degli evengelisti. La vetrate sono state disegnate da fra Damaso Bianchi, e realizzate da una ditta specializzata di Vaiano Cremasco. Il filo conduttore delle sette vetrate è il corso d’acqua, presente in tutte le immagini, che rappresenta il fluire della Grazia mediante i Sacramenti. Inoltre, poichè si sono voluti calare i sette Sacramenti nella realtà di Rogoredo, in ogni scena è rappresentato nel paesaggio un elemento tipico del Borgo: il Redefossi, la Redaelli o altri soggetti.