SOMMARIO Uno dei borghi antichi meglio conservati e carichi di storia, nascosto da un muro e da un fossato che gli girano intorno come se fosse un castello. Al suo interno, veri e propri monumenti, come la splendida casa paronale con giardino liberty e, nell’oratorio cinquecentesco, gioielli d’arte rinascimentale. Basti dire che il borgo è stato un comune fino al 1757 e appartenne per tre secoli alla Certosa di Pavia. Purtroppo ha subito ogni genere di scempio
di Roberto Schena
Selvanesco è un borgo completamente cintato da un muro e da un fossato, inserito in un punto panoramico tra i più belli di Milano. Al contempo, però, è un luogo sostanzialmente abbandonato da Dio e dagli uomini. Oggi, dopo alterni e sfortunati passaggi di mano, ne è proprietario un grande istituto bancario e sarebbero iniziati anche il lavori si sistemazione, ma il suo momento migliore è legato alla spettacolare Certosa di Pavia, da cui dipese lungo tre secoli interi.
Il nome indica la presenza ab origine di una selva, una specie di zona dantesca fittamente boscata, tenebrosa, anche acquitrinosa, vista l’abbondanza di risorgive nell’area, sicuramente popolata da rane, bisce, zanzare, uccelli e selvaggina. La selva non c’è più da parecchio tempo, gli alberi furono tagliati almeno cinquecento anni fa per diventare terra fertile: lasciò il posto a estensioni coltivate, punteggiate da sette insediamenti rurali diversi, alcuni oggi in triste rovina, altri no, tutt’altro. La doppia recinzione di muro e acqua) non rara ma poco consueta (nella vicina Macconago la recinzione è solo un fossato) già denota di essere di fronte a un insediamento dotato di una certa ricchezza, per il quale necessitava una protezione, soprattutto da ladri e animali selvatici.
Fino al 1757 costituiva comune a sé, con 170 anime, compresi gli abitanti delle cascine vicine. Come altre realtà analoghe, a decidere delle questioni principali, dalla manutenzione all’ordine pubblico, era l’assemblea di tutti i capi famiglia della comunità, un po’ il consiglio comunale di allora, guidati da un console nominato annualmente dall’assemblea stessa a pubblico incanto, quasi un’asta convocata appositamente in piazza. In termini pratici, vuol dire che veniva nominato console, cioè sindaco, qualcuno interessato a investire, a mettere i soldi necessari per allargare un’attività, per manutenere una strada, per provvedere ai poveri, ai bimbi e agli anziani. Peccato che non esistano le loro biografie, nemmeno minime.
Nel quadro di una importante riforma delle amministrazioni comunali, firmata Maria Teresa d’Austria, finalizzata a riordinare il catasto, il borgo fu aggregato a Quintosole, distante un paio di chilometri più a sud, semplicemente perché quest’ultimo aveva una parrocchia e 30 abitanti in più. Un’ingiustizia, giacché il “capoluogo morale” dell’area è sempre stato Selvanesco, il bellissimo borgo dove lavorarono grandi artisti (vedi QUI).
Ma se Quintosole aveva la parrocchia, Selvanesco era tradizionalmente chiamato, dai contadini del circondario, “l’abbazia”. Ora il borgo tutto sembra meno che un luogo religioso. C’è sì la facciata di una chiesetta visibile dalla strada, l’oratorio di San Matteo, ma il resto sembrerebbe essere stata una fattoria di lusso, oltretutto dotata di una grande casa padronale ristrutturata in periodo liberty, così elegante da far pensare a una scenografia dannunziana.
E invece fu effettivamente una proprietà ecclesiastica sino al 1782, appartenuta precisamente alla Certosa di Pavia, distante 35/40 chilometri, raggiungibile pur sempre nell’arco della giornata. Di quest’ultima fu ordinata la chiusura con decreto dell’imperatore Giuseppe II insieme a quella di molti altri monasteri ritenuti “inutili” perché “parassitari” e unicamente “contemplativi”, e tra questi anche l’altra certosa vicina, quella di Milano, località Garegnano. La scusa addotta a sostegno della soppressione è un capolavoro di perfidia: Pavia non aveva mantenuto la promessa, fatta a suo tempo ai Visconti, di devolvere ai poveri i proventi della Certosa una volta terminata la costruzione dell’intero complesso. Peccato che Vienna invece di obbligare i monaci a mantenere la promessa, ne incamerò i beni per finanziare le sue guerre, ignorando i poveri e bisognosi a cui i monaci provvedevano molto meglio, tramite diverse forme di assistenza.
Non si hanno notizie del borgo nel corso del XIX secolo. Si sa per certo che fu ristrutturato probabilmente all’inizio del XX, per essere poi molto maltrattato nella seconda metà, addirittura portato al limite della fatiscenza negli anni ’80 dalle persone “importanti” che lo occupavano senza degnarsi di proteggerne il passato, nascondendolo quasi alla città, complice la demenziale omertà di chi vi ha abitato. Un destino comune a tanti borghi milanesi, purtroppo.
Il primo nucleo di Selvanesco risale probabilmente al XIII secolo, quando doveva essere un casino di caccia, simile a quello tuttora esistente a Quintosole, oggi molto mal ridotto a causa dell’incuria. Il terreno era proprietà della potente famiglia Torriani, in quel periodo dominante a Milano. La loro signoria durò fino a quando, nel secolo successivo, furono scalzati in malo modo dai Visconti. Più di un secolo dopo i Visconti avevano pienamente consolidato il loro potere e la loro ricchezza, espressa in palazzi, agglomerati rurali, tanto da inondare la pianura di castelli e casali. Furono estremamente prodighi di doni anche nei confronti della chiesa, e dei certosini in particolare: del 1349 sono le donazioni dei terreni alla certosa di Milano Garegnano, del 1385 la posa della prima pietra del Duomo. Nel 1396 è la volta della Certosa di Pavia, considerata la tomba illustre della famiglia. Gian Galeazzo Visconti donò ai monaci gli abitati di Binasco, Magenta, Boffalora (la cui ex grangia è nel centro del paese) e San Colombano. Nel 1397 fu la volta di Selvanesco e Marcignago, nel 1400 di Vigano (Gaggiano). Tutte queste donazioni dovevano servire a fondare delle grange in grado sia di mantenere la comunità monastica, sia di produrre il reddito necessario per pagare i costosissimi lavori e gli artisti chiamati a Pavia, divenuta una seconda capitale ducale di lusso.
Dal 1406 diventa feudatario di Selvanesco un valente generale dei Visconti, Balzarino Pusterla (1340-1408), membro del consiglio ducale, un uomo di cui si dice fosse piissimo, passato agli annali come grande benefattore, nominato signore della nostra rinomata località di caccia come ricompensa per i servigi resi. Alla sua morte il feudo di Selvanesco passò per qualche anno di nuovo ai Visconti e solo nel 1412 fu definitivamente consegnato alla Certosa di Pavia per farne una grangia. In questo periodo dovette iniziare il disboscamento, la sua riduzione a una tabula rasa.
Il termine grangia, con cui si appellano numerose cascine, fu importato nel XII secolo dai monaci francesi dell’ordine cistercense, i migliori se non i più geniali agricoltori del Medioevo; deriva dal francese grange, granaio, a sua volta derivante dal latino granea, grangiarius. Inizialmente era il semplice deposito rurale del monastero, col tempo assunse il significato di grande azienda agricola legata a un ente religioso, in seguito anche privato. Selvanesco dovette trattarsi di una grangia discretamente ricca se nel 1588 padre Matteo Rivolta, procuratore responsabile di quella piccola comunità di certosini dediti ai campi, poté ordinare la costruzione di un oratorio utilizzando i mattoni cotti in una delle cascine vicine. A Selvanesco non c’era posto per padri monaci contemplativi come a Pavia: il personale doveva per lo più essere composto da fratelli conversi o “donati”, a seconda del voto. In grangia si lavorava sodo al comando del padre procuratore, sorta di fattore incaricato di distribuire le mansioni e coordinare le attività, oltre che badare alla cura delle anime. Sicuramente la comunità godeva della collaborazione di qualche famiglia contadina che qui viveva, di qualche artigiano, un fabbro, un falegname, uno stalliere.
La sorpresa arriva quando padre Matteo Rivolta chiama a lavorare alcuni degli artisti e architetti più importanti del tempo. Evidentemente la grangia era riuscita a mettere da parte qualche soldo e desiderava fare bella figura con i visitatori. Disgraziatamente, gli affreschi realizzati da quei grandi professionisti di Scuola Lombarda sono stati interamente ricoperti con intonaco bianco una quarantina di anni fa, quando il posto era in mano a non si sa bene chi, forse per togliere valore monumentale al sito, evitare l’intervento della Soprintendenza alle Belle Arti e farne mera area edilizia. Con il cambio di proprietà, oggi passata al gruppo bancario Unicredit, iniziano i primi sopralluoghi, basati su antichi documenti e vecchie fotografie degli interni oggi coperti, o meglio, nascosti dal bianco. Si scrosta qua e là l’intonaco ed emerge un mondo.
Oltre Selvanesco, il ‘capoluogo’, autentico scrigno di cose bellissime e con una imponente casa padronale, nell’immediato circondario sono presenti le cascine Gaggioli e Brandezzata, restaurate e ben tenute; la prima è un bellissimo agriturismo (il link lo trovate QUI), la seconda è diventato un hospice del Policlinico (link QUI). Le Cassinette, sono case coloniche ben tenute, ma le immediate vicinanze sono offrono una situazione di forte degrado. Cascina Giugno è in totale rovina, pare però che qualcuno abbia proposto un piano di restauro. Per finire, due altre cascine, una situata di fronte a Selvanesco, di cui si è perduto il nome e in totale rovina, e una più avanti sulla stessa strada, apparentemente anche questa senza nome, ma attiva e produttiva, sebbene difficilmente visitabile. Queste cascine costituivano il territorio del settecentesco comune di Selvanesco.
Prosegue nella seconda parte con la descrizione delle opere d’arte.