Uno dei maggiori studiosi e autori di pubblicazioni riguardanti borghi ed ex Comuni secolari, spiega che cosa insegnano gli antichi insediamenti rurali, quale eredità ci lasciano e come riprogettare la metropoli
di Roberto Schena Michele
Raramente capita di vedere uno scrittore di antichi borghi, urbanizzati dai vari boom o no, misurare i propri studi e approfondimenti fino a cogliere ciò che potrebbero prestare a una proposta di convivenza del futuro. Gabriele Pagani, una vita spesa a studiare i borghi antichi, lo ha fatto, ci ha ragionato su e ha pubblicato un saggio apposito, intitolato “Il Borgo-lavoro”. Occorre precisare che il Pagani è uno dei maggiori esperti di storia del territorio milanese (e non solo) difficilmente si trova qualcuno più documentato di lui, in materia. All’attivo ha diversi libri frutto sempre di sue ricerche negli archivi, di si può dire che negli archivi ci sia nato e da lì non si sia mai spostato (vedi la sua biografia QUI).
Ebbene, tale mole di sapienza gli ha fruttato una riflessione su che cosa rappresenti il borgo nella storia del vivere in società, nella produzione e nel difficile rapporto con madre natura. Per Pagani il borgo antico è sì il luogo dell’identità culturale di un territorio, ma volendo volare alto, lo stesso custodisce la proiezione del futuro, idee e riflessioni, un patrimonio intero messo a disposizione della comunità. Il libro di cui stiamo parlando non a caso s’intitola “Il borgo-lavoro, storia di città e villaggi operai”.
Alla storia del borghi il Pagani ha dedicato molto tempo della sua vita, pubblicando decine di scritti. Ora è venuto il momento di guardare all’eredità culturale ed economica che i borghi ci lascia. Che cos’è un borgo? Risposta: sostanzialmente un sistema economico autosufficiente, che non vuol dire autarchico, ben inteso, anzi, più aperto che mai nel puntare al benessere collettivo di tutti, senza strappi con l’ambiente naturale o urbano circostante e basato sulla solidarietà.
Il borgo, spiega Pagani, ha dovuto conquistarsi con mezzi mai violenti, solo con il lavoro, il suo spazio vitale, spesso sottraendolo a gruppi etnici o sociali bellicosi, portati a vedere nel lavoro dei campi qualcosa di disonorevole da cui fuggire, più adatto a donne, vecchi, deboli e bambini, forse una prova antropologica su come siano nate l’agricoltura e la civiltà sedentaria in ere primitive. In epoca industriale, l’esigenza di riempire fabbriche e miniere ha sconvolto e asservito il mondo rurale costringendo a lavorare in condizioni bestiali anche i bambini ed emarginando gli anziani. “Nelle campagne l’idea di allontanare (rinchiudere o emarginare, ndr) gli anziani non era neppure presa in considerazione”, scrive Pagani. Per non parlare dello stravolgimento della natura e dell’inquinamento. Il libro analizza le cosiddette “città spirituali” concepite per sottrarsi alla macchina infernale del capitalismo duro e rivoluzionario.
Tali città spirituali assomigliano molto ai borghi antichi del mondo rurale. Sono citate tutte le realtà descritte anche dai manuali di storia e talvolta dai testi di filosofia politica: Crespi d’Adda, il quartiere operaio di Schio, la cittadina di Torviscosa, la città sociale di Valdagno (Marzotto), il “villaggio da fiaba” di Collegno, il villaggio della seta Ferdinandopoli nel Sud, i villaggi operai di Villar Perosa e di Sisma di Valladossola; nella carrellata appaiono gli utopisti del funzionalismo con capitali propri (operarono fra il XVIII e il XIX secc.): Robert Owen, Charles Fourier; la città dei sogni in Spagna e altro ancora, il libro di Pagani è utile anche per formarsi una cultura, in materia di progettazione ideale, non subordinata al profitto.
L’idea di trasformare un quartiere urbano in un borgo-lavoro è utile per chi deve pensare o favorire il recupero dei quartieri gentrificati. A Milano, soprattutto, il pamphlet di Pagani serve a chi vuole capire qualcosa su come vedere i cosiddetti NIL, nuclei di identità locale. Sono 88 in tutto, previsti recentemente dal Piano del Territorio ma nessuno ha ancora spiegato bene che cosa ne vuole fare, forse perché non sa ancora nessuno. Se non altro, si è capito che il rispetto dell’identità locale è il fondamento delle comunità.