La mania di demolire senza riguardo per le preesistenze storiche e artistiche, in nome della modernità, è di vecchia data a Milano. C’è stato un momento, ancora durante la dominazione austriaca, in cui l’imprenditoria edilizia esigette la distruzione della medievale Porta Nuova (quella in piazza Cavour). Carlo Tenca, scrittore, giornalista e critico letterario, la difese con questo articolo. Se quel monumento è ancora in piedi, è grazie alla mobilitazione dei cittadini da lui chiamati a esprimersi. Altre porte furono invece distrutte. Ecco le loro fotografie
di Carlo Tenca*
Una triplice quistione d’arte, di storia, di convenienza sollevavasi poc’anzi in Milano intorno ai portoni di Porta Nuova, ultima reliquia memorabile della Lega Lombarda. Non so qual desiderio di spazio, di prospetto ampio e lungo, di rendilo aveva fatto nascere il pensiero di abbattere quel venerabile avanzo, unico superstite di un’epoca gloriosa di attività e di grandezza.
Pareva che la generazione attuale disdegnasse quasi di contemplare quel monumento di una città rifabbricata dalle fondamenta, donde erano usciti i Milanesi per combattere nei campi di Legnano (vedi le note storiche del SIRBec QUI). Tante memorie di sventure e di trionfi accumulate su quegli archi, edificati già coi ruderi della romana magnificenza, poscia antemurali della città contro Federigo II, su quegli archi che avevano visto passare il re Lodovico di Francia per recarsi alla giornata di Agnadello, e che avevano tante volte sostenuto gli assedj delle truppe spagnuole e francesi, non bastavano a salvarli dal martello dei demolitori.
Si voleva una corsia interminabile che dalla Rosa giungesse fino al bastione; si voleva almeno porre in prospetto il teatro della Scala e il bettolino di Porta Nuova, due opposte celebrità, per molti l’alfa e l’omega del sociale consorzio; e quasi quasi, bisogna confessarlo, senza l’energica opposizione di alcuni, il partito dei demolitori trionfava, e quegli archi stavano per essere gettati al suolo, come quelli di Porta Orientale, come quelli di Porta Romana, come la pusterla Lodovica, come tant’altri monumenti gloriosi della nostra antichità.
Non è che un fatto isolato; ma basterebbe esso solo a svelare le tendenze artistiche di un’epoca. Quando una generazione immola tutti i vestigi del suo passato al capriccio di una contrada più o men retta e lunga; quando le memorie più insigni sono riputate ingombro all’occhio, il quale ha bisogno di spaziare nel vuoto, è duopo compiangere questa nostra architettura, la quale abbatte invece di edificare, e non è atta ad altro fuorché a tirar di squadra e di compasso sugli edifizj per alloggiare i popoli in contrade allineate come le camerate di un collegio. Havvi nella vita delle città qualche cosa di importante e di essenziale, quanto la comodità dei passeggi e la lisciatura delle case; ed è il tesoro delle tradizioni. Noi additiamo con orgoglio al forestiero l’Arco della Pace, e quello di Porta Ticinese; noi andiam superbi del nostro teatro e della nostra arena; ma son cose nate jeri, e che ci farebbero credere l’ultimo dei popoli capitati in questa bella regione. Chi mai al vedere le nostre chiese rimbellettate, le nostre contrade costrette a divenir regolari, le nostre case bianche ed uniformi, vorrà dire che questa città così liscia e rimonda, vanti più di ventiquattro secoli di antichità, e sia stata la seconda città d’Italia all’epoca romana, e la prima nel risorgimento del Mille? Chi vorrà credere che qui abbiano avuto stanza dieci popoli diversi, e che altrettanti periodi di civiltà siansi succeduti a mutar la condizione del vivere, e l’aspetto delle città?
In verità, se non ci affrettiamo a conservare le poche reliquie che ci rimangono della nostra antichità, non avremo più un sasso che possa far fede di quel che un tempo eravamo. […]
Che abbiam fatto noi perché ci crediamo in diritto di distruggere quei monumenti che i nostri maggiori hanno eretto? Da due secoli e mezzo noi lavoriamo a torturare le belle linee antiche, ad accartocciare gli ornamenti, ad appollajarci in meschini edifizj, a scimiottare con miseri sforzi i maestosi monumenti d’Atene e di Roma. Poi un bel dì troviamo che l’aria ci manca, che non possiamo respirare in mezzo a questi edifizj lilipuziani, e gridiamo spazio, spazio, per gettar a terra quelle reliquie che sono un rimprovero continuo all’impotente architettura moderna. Allora, quasi a sgravio della nostra coscienza, raccogliamo in un libro la descrizione di quei ruderi distrutti, e crediamo di aver soddisfatto a sufficienza al nostro debito, lasciando una memoria che dica ai posteri: qui fu una città. Bel compenso in vero a chi vorrebbe cercare le nostre glorie altrove, che nelle Guide dei Forestieri, o nelle tradizioni dei Ciceroni da piazza!
E pur troppo le Guide diventeranno in breve il solo monumento municipale che posseda la nostra città. Poco più d’un secolo è trascorso, dacché il Lattuada ha scritto la sua Guida di Milano; e già una metà delle cose da lui descritte sono scomparse, e le altre, guaste, mutilate, o malamente rifatte, minacciano di scomparir anch’esse. Se la cosa prosegue di questo modo, se l’incuria lascia perire i tesori più preziosi, se il capriccio abbatte i più insigni monumenti, quella Guida diventerà tra poco la descrizione di una città favolosa, la cui esistenza si perderà nella notte dei tempi. Noi lo diciam con dolore: la storia, l’arte, la poesia si van perdendo insieme colle memorie della nostra vita civile. Noi abbiam bisogno di quelle marmoree tradizioni che educhino a grandezza morale le crescenti generazioni. […]
In Francia non valsero né le eloquenti invettive di Victor Ugo, né la generosa indignazione di Montalembert a frenare i guasti della distruzione: la stessa Notre-Dàme non è sicura d’andar salva dal vandalismo, se non giunge in tempo la legge proposta adesso alla Camera col rapporto dello stesso Montalembert. Da noi non giovò l’anatema lanciato dal Politecnico contro i vandalici ristauratori a salvare qualche bella chiesa dai maltrattamenti dell’architettura moderna. Né la voce del Dall’Ongaro a Trieste, né quella del Banchero a Genova riuscirono ad ottenere neppure una tregua nella guerra continua degli imbiancatori, dei rappezzatori, dei divoratori di pietre. […]
Ma noi non badiamo a memorie. Noi vogliamo spaziare coll’occhio per lunghi filari di case, vogliamo far trottare comodamente i nostri cocchi per le contrade e per le piazze. Quei ruderi, quei monumenti, potrebbero far inciampare qualcuno dei nostri cavalli inglesi, potrebbero ferire il raggio visuale dei nostri occhi armati di lente. Togliamo adunque quest’inciampi, distruggiamo, lisciamo: che i nostri guanti gialli non abbiano per avventura a insudiciarsi contro quei neri marmi, contro quelle mura ammuffite.
La pietà cittadina aveva fatto innalzare un gran numero di colonne a tutti i quadrivj di Milano, atterriamo quei venerandi ricordi di guerre, di martirj, di pestilenze, facciam largo agli omnibus ed alle vetture da nolo. Il Bramante, il Morazzone, il Fiammenghino, il Barabino avevano dipinto sull’esterno delle case, a San Michele al Gallo, al Cordusio, nei luoghi più frequenti della città, bellissimi affreschi e scene della vita pubblica milanese; scrostiamo quelle pareti, veliamole di bianco; che la tinta di quelle case non discordi da quella delle nostre cravatte. Qualche buon parrocchiano del secolo decimoquarto aveva pensato a conservare l’effigie dell’antica metropolitana, facendola dipingere qua e là sulle pareti delle case contigue: roviniamo quei dipinti, distruggiamoli: gli architetti sapran bene studiare altrove la storia e le trasformazioni dell’arte. Non bastano in ogni caso il Vitruvio ed il Vignola? […]
V’è cui sembrano esagerati questi lamenti? Ma il danno è grave, e non basta additarlo alla pubblica indifferenza. Bisogna scuotere gli animi, ridestarli all’amore delle tradizioni e dell’antichità. Che diverrà la storia, allorché avremo distrutto ogni vestigio del passato? Noi abbiamo intorno a noi un’intera vita feudale sepolta nei mille castelli ond’è popolata la nostra pianura. Quante misteriose rivelazioni in quei ruderi del medio evo, che attendono ancora lo scrutinio dell’archeologo o il canto del poeta! E quanto poco costerebbe il mantenerli in piedi, il conservarli, il farli servire di spettacolo vivente di un’età trascorsa? […]
A questo modo si va perdendo ogni traccia della nostra vita passata. I nostri figli ci chiederanno chi abitava prima di noi in queste contrade che noi abitiamo, e noi non sapremo che rispondere. I nomi del Broglio, del Verzaro, di Brera, o Braida, di Viarena, giunsero fino a noi a indicare l’antica posizione di Milano versante dapprima al Ticino, dov’era l’abbondanza delle fonti, poi ritraentesi verso l’alto a fabbricare il Borgo Nuovo, la Porta Nuova, quando l’irrigazione ebbe reso più insalubre il basso piano di Porta Ticinese. Ma noi quali nomi e quali indizj lascieremo ai nostri nipoti? Noi lascieremo una città lisciata ed abbigliata a nuovo, come un artigiano nel dì delle feste; lascieremo cincischj e nomi di conio novello; lascieremo un vuoto inglorioso, dove prima sorgevano gloriosi monumenti. È tempo che si provveda al riparo. […]
La Francia ne porse già l’esempio di un’ottima istituzione per la conservazione dei monumenti patrii. Molti socj concorrono mediante un annuo contributo a soccorrere i monumenti in rovina, e pubblicano ogni anno il bullettino delle loro operazioni. Perché non potrà istituirsi anche da noi una somigliante società? […]
Quantunque impoverita dall’incuria e dal vandalismo, la nostra città possiede ancor tanto di monumenti da formare un dovizioso museo. Tra quegli stessi, che deplorammo perduti, chi sa che alcuni non giacciono dimenticati in qualcuna delle nostre ricche case. Un embrione di museo lo possediamo già all’Ambrosiana: perché non potrassi ingrandire, costituirne un vero Museo? Ci sarà chi opponga la ragion della spesa; chi stimi danaro gettato quello adoperato alla conservazione dei monumenti? A costoro, se mai ve n’ha, non abbiam nulla a rispondere: essi possono a loro grado abbattere le colonne di San Lorenzo per farne pilastri indicatori, o fondere il pallio di Sant’Ambrogio per coniarne monete. Ma guai a quell’età che traduce in calcolo il sentimento dell’arte.
* Questo articolo di Carlo Tenca (Milano 1816- ivi 1883), intitolato Sulla demolizione dei monumenti patrii, fu pubblicato sulla “Rivista Europea” da lui diretta, 3, 1845, parte I, pp. 731-739. Tenca, critico letterario, mazziniano e combattente nelle Cinque Giornate, seguì poi le orme del Cavour. Dal 1850 al 1859 diresse “Il Crepuscolo”, nuovo settimanale di scienze, lettere, arti, industria e commercio in collaborazione col Catteneo, scontrandosi col governo austriaco. Eletto parlamentare del Regno nelle file della destra moderata, si occupò di pubblica istruzione. I suoi scritti furono ristampati per decenni, anche nel XX secolo e suscitano interesse ancora oggi.