Un nuovo, importante libro sulla zona più brutta e malsana di Milano, la Bovisa, ne parla Giorgio Fiorese, un grande conoscitore, in un testo esemplare. Adorata da fior d’artisti e chiamata “la piccola Manchester” già alla fine del XIX secolo, fu un’autentica “silicon valley” nata 140 anni fa. Il volume spazia dalla scienza alla letteratura, dalla pittura del Novecento al cinema e al teatro di Visconti e Testori
Tutto il fascino del brutto e dello squallido ma geniale. Non ci si rende conto di che cosa sia stata la Bovisa se non si ha tra le mani questo volume di Giorgio Fiorese intitolato stranamente “Aura di Bovisa”. Il libro è frutto di una ricerca durata una vita da parte di un esperto urbanista, consente di leggere e guardare quella particolare fetta di città nota con quel nome. Un quartiere laboratorio.
La copertina è praticamente un lenzuolo lungo un metro, piegato in 4. La lunga immagine è apparente grandangolo, in realtà è l’unione di 4 fotografie realizzate sicuramente da qualcuno di cui non si conosce il nome, presumibilmente negli anni 30 o 40. Di certo era un grande professionista. È essa stessa un capitolo. In un colpo d’occhio, riproduce un panorama trasformato dalla rivoluzione industriale, evento epocale esplosivo, totalmente in contrasto con il nome del luogo, derivante dal latino bovis, che richiama la ruralità di una volta. Ossia: i prati a marcita, i giganteschi pioppi neri, i temporali e l’arcobaleno verso le Prealpi, i freschi fontanili e le rogge, le stalle con centinaia di capi. “Aura di Bovisa” mostra invece uno scenario infernale, da cui spuntano una dozzina di ciminiere, mucchi di rimasugli di lavorazione, cumuli di terra bruciata, grossi tubi contorti e altri sdraiati, o tolti o da installare, capannoni in muratura con facciate ispirate alle chiese medievali, in serie. All’interno operano ben altri monaci: vestono tute blu, si chiamano operai e si sa che ci sono giacché dai tetti si elevano fumi bianchi e neri che vanno ad appesantire un cielo già di per sé plumbeo, mentre all’esterno si notano soltanto due microscopiche figure di salariati accovacciati. Su tutto, dominano gli scheletri dei gasometri, ben tre.
Il libro ha per sottotitolo “Produzione – Conoscenza – Figurazione” (Maggioli editore, 139 pagine), ha un formato quadrato grande di 26 cm. x 26 in grado di valorizzare le centinaia di fotografie straordinarie contenute, tutte vedute targate Bovisa, risalenti agli anni 40 e 50. Chi vuole capire che cosa sia stata la Bovisa e quale ruolo, quale posto occupa nel contesto milanese, lombardo, nazionale e perfino mondiale è questo libro che deve avere tra le mani.
Avrete capito adesso perché il libro s’intitola “aura” di Bovisa, non è semplicemente un “ritratto”, è un racconto interdisciplinare enciclopedico, esemplare di come dovrebbero essere scritti i libri riguardanti il territorio, perché solo così possiamo sperare che i cittadini assumano qualcosa di importante e lo rispettino. Aura non è parola di uso quotidiano, significa vento lieve, brezza, aria in senso esteso, suggerisce piuttosto l’idea di un’atmosfera, una suggestione, è intesa come alone di sacralità, o quasi. Esiste l’aura di un mistero e l’aura di un’opera d’arte. Ricorrendo a un corpo molto piccolo, le 139 pagine riuniscono qualcosa come 3 o 4 volumi diversi. Inizia con il capitolo “Vite operose, illustri e non”, perché Fiorese nel narrare le vite degli imprenditori pionieri, come Carlo Erba, Giuseppina Pizzigoni, Giuseppe Visconti di Modrone, Enrico Mattei e di altri grandi che hanno scritto la storia della tecnologia Made in Italy, inserisce nell’elenco un operaio, figura di cui il Novecento, a differenza dei giorni nostri, aveva grande rispetto. Trattasi di Luigi Mazzari, fondatore di testate autoprodotte e scrittore di talento operante fuori dai circuiti dell’editoria consacrata.
Di Enrico Mattei, geniale in tutto, come imprenditore, come patriota e poi manager dell’Eni, si ricorda che la sua prima azienda, la Industria chimica lombarda grassi e saponi, operò dal 1931 a Dergano in via Tartini, borgo antico divenuto industriale nel contesto della piccola Manchester, come veniva chiamata la Bovisa.
Alla storia di codesta “città satellite” dalle origini a oggi sono dedicati due capitoli estremamente accurati, con la cronologia paziente, anno per anno, di tutte le industrie e attività produttive qui nate dal 1880 fino all’anno 1964, nonché la crescita del megaquartiere tecnologico stesso da borgo rurale che era. Bovisa avrebbe tutte le qualità per essere considerata un “silicon valley” dedita all’industria di prim’ordine, ma non ha mai goduto di un’amministrazione sua, non ha mai provato l’esperienza di un autogoverno. Per palazzo Marino era una periferia come tante altre. Bovisa avrà quindi l’aspetto non di una città ma di una piatta, squallida periferia governata distrattamente da palazzo Marino, come tutte le altre zone periferiche, del resto. Infatti, Fiorese non si sofferma sulle problematiche del quartiere, analoghe a quelle di tutti gli altri quartieri operai, lascia che a parlare siano fior di artisti, come Sironi, Visconti, Tettamanti, Testori, Olmi, tutti innamorati persi di una zona così brutta, squallida e angosciosa, triste e malsana, dove un autore come G. B. Shaw avrebbe potuto benissimo adattare una delle sue commedie più critiche verso il capitalismo. Bovisa, da settore più grigio dell’intera metropoli, per qualche tempo fu effettivamente amministrata da un Consiglio di Zona, uno dei 20 in cui era suddivisa Milano prima che le circoscrizioni fossero ridotte a 9 Municipalità. Oggi è nel Municipio 9 insieme a ex Comuni come Affori e Niguarda, ma Bovisa, da sola, era per la precisione la numero 7 e proprio Fiorese vi aveva pubblicato negli anni 80 uno dei suoi maggiori studi (vedi l’autopresentazione di Fiorese QUI).
La sezione dedicata agli artisti in Bovisa spiega e illustra le opere realizzate avendo Bovisa come scenario: da Rocco e i suo fratelli di Luchino Visconti all’Arialda di Giovanni Testori; Fiorese c’intrattiene sul rapporto di collaborazione fra i due, un intreccio di cinema, teatro e letteratura reso possibile dalle suggestioni prodotte vivendo in Bovisa. Nel ritratto di Mario Sironi si ricorda quanto nel 1919, in piena rivoluzione industriale, scriveva: “Milano è brutta ma solida”, dando vita a una serie di paesaggi urbani angosciosi e tristissimi, presi proprio da Bovisa, assunta quale emblema della condizione umana tout court, spogliata da ogni retorica classica. Il suo gasometro sembra il Colosseo, e il Colosseo dipinto a Roma sembra un gasometro, struttura a cui il libro dedica una sezione.
Il libro di Fiorese mostra il come eravamo delle aziende grazie a una imponente documentazione fotografica d’epoca, ce ne sono decine e decine, alcune sconfinano nel surreale. Il suo racconto prosegue fino a nostri giorni, non senza avere trattato gli anni 80 e 90, ossia la difficile dismissione industriale, un dramma nel dramma; i progetti di riqualificazione sono passati attraverso l’apertura di un ramo del Politecnico, qualche condominio qua e là, qualche edificio di vetro da consacrare al terziario generico, il tutto sfruttando la stazione del passante. Ma nel complesso, la Bovisa resta un’area non finita, una sezione di città poco felice. Rimane enorme il problema della cosiddetta Goccia, il cuore della vecchia Manchester meneghina oggi lasciata alle piante spontanee che, da sole, hanno come progettato un vasto polmone di verde. Tutto sommato, anche se lontano dall’essere definita, la nuova Bovisa ha migliorato l’aspetto panoramico, non è più il deserto angoscioso di Sironi, ma da troppi anni non sappiamo se lo scambio epocale sia all’altezza di un passato ricco di gloria.