SOMMARIO Quarto Cagnino è uno degli antichi borghi milanesi meglio conservati, nonostante diversi abbattimenti che ne hanno mutilato l’aspetto. Tutt’intorno, si ergono schiere lunghissime di palazzi stile ex Germania Est, mentre all’interno del vecchio abitato sopravvive ancora l’unica croce stazionale senza statua rimasta in città, della quarantina che ce n’era. Da tenere d’occhio l’elegante cascina Ghisa Maran, è del XVI secolo ma è da un paio d’anni disabitata e non ha alcun vincolo di tutela…
di Roberto Schena Michele
Fra lunghissime, ininterrotte alte schiere di palazzoni, tutti prefabbricati negli anni Settanta in stile Plattenbau, creato nella ex Germania Est, spicca questo antico borgo in elegante contrasto. Quarto Cagnino è un’autentica perla racchiusa in una conchiglia di cemento. Si trova nella zona Ovest di Milano, compresa fra Trenno e Baggio, ai limiti del Parco delle Cave. Si chiama così perché situato a quattro miglia romane (quasi sei chilometri) dal centro di Mediolanum, oggi piazza Cordusio.
Un po’ Medioevo, un po’ ex Germania Est
In lingua tedesca, Plattenbau indica edifici residenziali costruiti copiando semplicissimi moduli identici, ripetuti per centinaia e centinaia di metri. Consente la realizzazione economica e la consegna veloce di migliaia di appartamenti uno sopra l’altro, uno accanto all’altro, come tanti pannelli sovrapposti, distesi in giganteschi parallelepipedi con poche o addirittura senza soluzione di continuità nel quartiere. Questa tecnica di costruzione, molto pratica e risolutiva, fu adottata dal Governo di Berlino Est per dare rapidamente un tetto alle decine di migliaia di famiglie (quello che ne rimaneva) sfollate dai bombardamenti a tappeto degli Alleati. Nei decenni successivi, il modello fu letteralmente esportato a tappeto in tutta Europa, dell’Est e dell’Ovest.
In quel di Quarto Cagnino, il riferimento al vecchio stile est-europeo è esplicito: c’è il nome della via principale, intitolata a Carlo Marx, attorno alla quale si snoda tale efficientissima architettura. Il paragone stilistico è con il Corviale a Roma, Scampia a Napoli, Zen a Palermo. La differenza però è notevole: le schiere di questi Plattenbau si presentano pulite, in ordine, ben intonacate e ridipinte: nessun segno di degrado, anzi, tutt’altro. Si dimostra come la civile convivenza dipenda non dall’ente pubblico, ma dai residenti. Qui non sono troppo disprezzati simili palazzoni, se non altro per la cura e l’amore con cui i residenti, tutti proprietari dell’appartamento in cui vivono, vi dedicano.
La località Quarto Cagnino era un piccolo comune rurale aggregato a Trenno nel 1869 e poi con quest’ultimo a Milano nel 1923. Oggi è un’area di grandi insediamenti abitativi e servizi, in mezzo alla quale sbuca il borgo medievale, miracolosamente piuttosto ben conservato, nonostante gli scempi che ha comunque dovuto subire quale sorta di tassa pagata alla modernità. Quarto Cagnino è uno dei più importanti fra i 70 borghi storici rimasti a Milano ed è uno dei pochissimi che possa dirsi ormai in salvo, essendo per i tre quarti decentemente restaurato, sempre a opera di volonterosi proprietari cittadini, la mano pubblica si sente poco. Andrebbe salvaguardato tramite una protezione paesistica di garanzia per il futuro.
Il gusto del proprietari residenti nel borgo emerge nelle ristrutturazioni, l’obiettivo è sempre avvicinare l’aspetto degli immobili antichi il più possibile al moderno, con ampio uso di intonaci pastellati: molto usati il giallo, il rosa e il verde, mai impiegati precedentemente, nel corso della loro storia. Esteticamente offrono qualche risultato, tuttavia discostandosi dall’immagine di borgo antico e si perde un po’ il fascino del tempo trascorso.
Il monumento: la Crosètta, o “croce stazionale”
Il centro dell’abitato si apre sulla piazzetta, con una prospettiva costruita su un perno particolare: una colonna di granito dal significato storico. Si tratta, infatti, di una croce stazionale. Situata in via Fratelli Zoia davanti al civico 54, è circondata da villa Rosnati, dalla Curt de’ tabacché, tabaccaio peraltro esistente tutt’oggi, e dal ricovero di un maniscalco, oggi trasformato in abitazione. Un paio di foto d’epoca illustrano il posto. La “croce stazionale”, per gli abitanti, è sempre stata semplicemente la crusetta (scritto crosètta). Era una delle molte croci della salvezza, a cruce salus, dalla croce la salute (dell’anima e/o del corpo) si diceva, sparse per Milano e dintorni. Colonne simili un tempo caratterizzavano gli incroci del paesaggio abitativo, ce n’erano ben 39 fra città e circondario. A Milano ne sono rimaste appena una decina, tutte con una statua in cima e situate quasi tutte entro le Mura Spagnole, solo questa di Quarto Cagnino è situata in un borgo e ha ancora unicamente la croce di ferro in cima. L’uso di collocare croci stazionali alle intersezioni delle vie risale al Trecento, sotto Barnabò Visconti (1323-1385) e proprio qui a Quarto Cagnino c’è una via a lui intitolata. Servivano a indicare il luoghi della messa all’aperto, consentendo di seguirla, nei periodi di pestilenza, o dalle finestre, o dall’uscio di casa, comunque evitando assembramenti in chiesa.
Con la peste detta di San Carlo, quella del 1576-77, meno tremenda della successiva, detta manzoniana, del 1630, le croci stazionali aumentarono, ma soprattutto prevalse l’uso d’innalzarle su una colonna di granito, citate espressamente come croci votive. Con la peste del 1630, narrata dal Manzoni nel XXXI capitolo dei Promessi Sposi e nella Storia della Colonna Infame, quindi sotto il cardinale Federigo Borromeo, raddoppiarono. En passant: I Promessi Sposi, com’è noto, affascinarono i più grandi scrittori dell’Ottocento, tra cui Edgar Allan Poe, autore, tra gli altri “Racconti del Terrore”, di The Mask of the Red Death, la maschera della morte rossa, la peste, appunto, scritto nel 1842. Poe recensì il romanzo del collega italiano nel 1835, segnalando in particolare la “potenza espressiva” del Manzoni nel descrivere “gli orrori della pestilenza che devastò Milano”. In effetti, dimezzò letteralmente la popolazione.
Le croci votive furono abbattute quasi tutte nel corso del XVIII secolo, perché si dice ostruissero il traffico di carrozze, carri da trasporto, cavalli e altri animali. La rivoluzione industriale con i suoi intensi spostamenti e la crescita netta della popolazione, iniziava a farsi sentire e le croci stazionali infilate dappertutto rievocavano una serie di momenti funesti, ricordi tragici, racconti dell’orrore. La metà di quelle 39 croci risalivano a un periodo in cui la popolazione milanese scese da 150 mila abitanti nel 1628 a 64 mila nel 1630, il minimo storico lungo l’intero arco dei secoli compresi fra il 1300 e il censimento del 2011. Dal XVIII secolo, la popolazione iniziò a risalire insieme all’incremento mondiale, raggiungendo a Milano le 124 mila unità nell’anno 1800. Il vaccino contro la peste fu scoperto solo alla fine dell’Ottocento, ma già il progresso illuministico in ogni campo della vita civile, sanitaria e rurale favorì nei secoli a seguire la crescita demografica generale.
Sempre e comunque la Storia
Alcune croci stazionali, proprio quelle con la sola crocetta di ferro in alto, senza statua, segnalavano che lì c’era un lazzaretto, o un cimitero per appestati, e a quanto sembra è il caso di Quarto Cagnino. Che però riporta una strana data di erezione, e in bella in evidenza: 1746. Mentre nella Milano austriaca si voltava pagina abbattendo una dopo l’altra le croci stazionarie, a quattro miglia da Milano, in totale controtendenza, se ne metteva, o rimetteva in piedi una. La ragione precisa di questa apparente contraddizione non è nota, né mai lo sarà, si è persa nei secoli. L’ipotesi è che nel 1746 sia stata risistemata una croce stazionale già esistente, qui o da altra parte.
Tre anni dopo la colonna votiva di Quarto Cagnino, nasceva nell’ancora oggi piccola città di Berkley (duemila anime), nel Gouchestershire, in Inghilterra, Edward Jenner (1749-1823), scopritore dell’immunizzazione tramite vaccini. Jenner lavorò in un borgo non molto più grande di quello di cui stiamo parlando; lì Jenner inoculò con successo ai contadini locali i primi sieri contro il vaiolo, all’interno di una una stanza appositamente adibita, da lui chiamata Temple of Vaccinia.
Meno di vent’anni dopo il 1746, la data scolpita sulla crusetta, a Milano sarebbe stato pubblicato il Giorno di Giuseppe Parini, che contrappone alla vita laboriosa e virtuosa dei contadini e degli artigiani, quella vuota e arrogante del nobile. I primi portano una serie di valori come la laboriosità, la sobrietà, la semplicità, in contrasto con la società aristocratica, rappresentata da un giovin signore ozioso e inutile al consorzio umano.
Il borgo delle nove cascine
Quarto Cagnino è rimasto un borgo composto da una serie di cascine, una dopo l’altra. Erano 9. Tre, ahinoi, sono state abbattute durante gli ultimi cinquant’anni, le altre non sono più attive ma tutte recuperate a uso abitativo in un modo non proprio magistrale, ma abbastanza dignitoso. Tutte sono affacciate sulla via principale, il “corso” del paesetto. Non è pedonalizzato per l’opposizione poco accorta dei commercianti. I tre cascinali abbattuti hanno fatto posto a edifici moderni tutto sommato insignificanti. Fanno compagnia alle schiere di Plattenbau.
Come si è scritto sopra, il borgo si chiama così perché situato a quattro miglia dal centro romano di allora, che oggi è piazza Cordusio. Il nome rivela come la prima fondazione del borgo risalga a epoche davvero antiche, oltre i mille anni. Il miglio romano corrisponde a mille passus, il passo inteso alla romana, cioè 1 passus = 1,48 metri, un metro e mezzo (meno due centimetri, 1000 passus = 1480 metri). Si noti bene: un singolo passus romano equivale a due dei nostri passi di oggi, non di uno solo come nell’accezione odierna. Ergo, Quarto Cagnino è distante da piazza Cordusio ottomila passi del XXI secolo, ovvero 5.920 metri, quasi 5 chilometri, così come il vicino borgo di Quinto Romano ne dista diecimila e quest’ultimo dista solo duemila passi da Quarto Cagnino.
L’isola Ghisa Maran
L’isola in questione è formata da un ampio, elegante rustico, chiamato Ghisa Maran, o semplicemente noto come el Maran, rimasto quasi intatto. Posta vicino alla via di passaggio fra Milano e Novara, “l’isola” fin dal XVI secolo è stata un’osteria-locanda. Qui sostavano i cavalli e i viaggiatori durante la notte, sono ancora visibili gli anelli di ferro per legare i quadrupedi. Per qualche decennio è stata trasformata in un ristorante, tra l’altro piuttosto apprezzato, denominato “Ai tre caminetti”. Allo stato attuale il ristorante è chiuso. Trattandosi di un monumento non ancora vincolato, è da ritenere prima o poi a rischio di abbattimento, come è avvenuto per altre cascine lì vicino. Il rustico è ben conservato, s’intravvedono ancora colonne, finestre a sesto acuto, arcate e portici dello stallazzo. Nel cortile è ben conservata l’antica pompa dell’acqua, chiamata “la tromba”.
Poco distante, più avanti di circa 50 metri, all’inizio del villaggio, c’era il maniscalco, l’ultimo dei quali conosciuto si chiamava Giacomo Gervasoni, el Giacomin. Negli anni successivi, la sua palazzina, davanti alla crusetta, è stata trasformata in abitazione. Una fotografia degli anni Cinquanta (vedi in alto) mostra come si presentava: al primo piano era situato il fienile, sotto c’era la bottega vera e propria, indicata da un ferro di cavallo appeso sopra l’ingresso, dove venivano applicati agli zoccoli i ferri incandescenti e, a fianco, la sua abitazione.
L’inizio del borgo
Al numero civico 61 si trovava la chiesetta del borgo, dedicato a San Giovanni Decollato, costruita o ricostruita nel XVIII secolo. Durante un bombardamento dell’agosto 1943, subì un incendio che la rese inagibile e fu quindi demolita. Ma nel frattempo fuori dal borgo, tra i campi, fra il 1938 e il 1939 era stata costruita la chiesa di Sant’Elena. Perché Sant’Elena? Per omaggiare sia il regime di Mussolini, sia la moglie del re Vittorio Emanuele III, Elena di Montenegro (1973-1952), da cui deriva il nome dell’amaro Montenegro. Chi era costei? Amatissima dagli scrittori e da Pio XI, trasformò il Quirinale in una autentica infermeria per il ricovero dei soldati feriti durante la Grande Guerra, curati umilmente da lei stessa, mentre il re era stabilmente al fronte. L’altra Elena regina è Flavia Giulia Elena, una santa, la madre dell’imperatore Costantino convertita al cristianesimo e patrocinatrice di diverse chiese. Figlia di un oste pagano, divenne la concubina (o forse la prima moglie, poi ripudiata) dell’imperatore Costanzo Cloro. Dalla loro unione nacque appunto il primo imperatore cristiano. Quindi il nome Elena ricordava sia l’impero romano di Costantino, che tanto piaceva al fascismo, sia la moglie del re, tanto gradita al Papa.
La nuova chiesa parrocchiale di Sant’Elena
Progettata dall’architetto Michele Marelli (1897-1977), uno dei grandi nomi del gigantesco movimento di stile ricordato col nome di “Novecento”, tutto teso a decomporre e a recuperare al moderno le forme classiche, vede i lavori iniziare nella primavera del 1938 per terminare nel giugno dell’anno successivo. La chiesa è ritenuta un capolavoro, sebbene come in tanti altri nuovi edifici religiosi di quel periodo sia la solita mostra di mattoni a vista, molto gradita dalla retorica del regime perché ricorda tanto la “romanità” marcata, allucinante, dell’Impero. L’inaugurazione dell’edificio avvenne alla presenza della regina Elena e del cardinale Ildefonso Schuster, il 17 giugno 1939. Dell’avvenimento esiste un breve filmato dell’Istituto Luce, lo trovate qui. Nonostante la guerra in corso, si completa la struttura e si provvede alla messa a punto della casa parrocchiale; i lavori hanno definitivamente termine nel 1945.
L’anno precedente erano iniziate le attività dell’oratorio maschile e femminile. Poco dopo si avvia un gruppo di Azione Cattolica formato soprattutto da giovani impegnati in politica e nella società.
Bibliografia
Link di riferimento: